Il Nepal: alcune personali considerazioni
Quando torno in Nepal, ci sono stato otto volte, sono sempre sorpreso da tutto ciò che mi circonda, da ciò che trovo, dal comportamento della gente, dall’atmosfera che ti avvolge e che si respira.
A Katmandu si vive in una confusione solo apparentemente disordinata, le strade non hanno un nome, le auto ti passano sui piedi e nelle vie più trafficate hanno tutti la precedenza, ma prevalgono le dimensioni del mezzo, nell’ordine: i camions, i pullman, i moto-risciò, le motociclette, etc. I mezzi pubblici, i pullman, viaggiano con la portiera aperta e sul predellino staziona il ‘bigliettaio’ che non stacca biglietti ma fa salire e scendere i passeggeri raccogliendo le quote per il viaggio. Questo personaggio comunica con l’autista battendo la mano sulla carrozzeria: un colpo significa che deve fermarsi, due colpi quando si può ripartire e tiene in mano l’incasso dei viaggi. Poi sfrecciano i motociclisti, facendo la gimcana tra gli altri mezzi, con a bordo l’intera famiglia, anche in cinque (il casco lo indossa solamente chi guida); per i risciò a pedale e per i pedoni il rischio è molto alto anche perché non esistono semafori e i comandi dei vigili, presenti nei principali incroci, sono normalmente ignorati.
Anche se dotati di fischietto i vigili si limitano a dare indicazioni con le braccia: sul volto portano sempre una mascherina per proteggersi (!) dallo smog che si vede nell’aria grigia. Ma la gente riesce a rendere questo caos razionale; quando percorri le stradicciole di Thamel, il quartiere dei negozi, ti trovi immerso in una realtà che non siamo abituati vivere, i colori della merce esposta si mescolano con la cordialità dei venditori, posti sulla porta fuori dal negozio, che ti salutano per la prima volta o per l’ennesima volta ti chiamano ‘italiano’ seguito da un ‘come stai?’, e ti invitano a contrattare sul prezzo dei loro prodotti.
Ma se a Thamel la cordialità può essere alimentata dall’opportunità di venderti qualche cosa, non altrettanto si può dire quando incontri una persona, una mamma con uno o più bambini, un portatore; allora la cordialità (e il termine mi sembra appropriato cioè ‘dal cuore’) è sicuramente gratuita.
Quando ti guardano e congiungendo le mani ti salutano con un timido namasté e un grande sorriso non puoi fare altro che rispondere con un tuo namasté. Namasté significa “riconosco il divino che c’è in te”, ma nel pronunciare questa parola avviene un contatto tra le persone ricco di espressione: un saluto, un augurio, un arrivederci, forse un ‘ti voglio bene’.
Questi momenti evocano una forma di spiritualità che si vive anche quando ci si avvicina agli stupa, costruzioni e luoghi sacri che si incontrano per strada e che bisogna superare alla loro sinistra.
Spesso sono corredati di sculture nella roccia del mantra “Om Mani Padme Hūm”, un mantra del buddismo tibetano che tradotto dal sanscrito significa “O Gioiello nel fiore di Loto!“.
Il mantra, composto da sei sillabe, purifica l’uomo da sei complessi dell’ego: orgoglio, gelosia, desiderio, ignoranza, cupidigia e rabbia, trasformandoli nelle sei qualità della mente illuminata: generosità, armonia, buon comportamento, resistenza, entusiasmo e comprensione.
Succede poi di entrare in un monastero per ammirare le particolarità artistiche del luogo cercando di non disturbare e di non infrangere il clima di spiritualità e si viene, con nostra immensa sorpresa, invitati ad accomodarci dove fino ad un attimo prima sedevano alcuni monaci. Subito dopo ci servono una tazza di tè; allora ti senti uno di loro, senti che le ‘differenze’ a volte non esistono, ti senti immerso in un mondo quasi sconosciuto ma coinvolgente, dove il tempo non si misura più e con grande piacere e concentrazione ascolti solamente le loro preghiere, i loro canti e le loro musiche.
E ti sembra di essere fuori dal mondo reale.
Un posto preminente lo occupano i bambini, quando ti guardano con i loro occhioni e vedendoti la macchina fotografica si mettono in posa con le mani giunte, e poi corrono a vedere il risultato sul display. Ma la felicità la esprimono anche quando si vedono porgere una matita o un fermacapelli da provare immediatamente, facendosi aiutare da chi glie lo sta donando.
Spesso anche la mamma, informata dell’accaduto, esce o si sporge per ringraziare tutti noi e magari offrirci un te.
Tutte le persone sono ben disposte nel farti sentire a casa, con la loro vita semplice, la loro generosità, l’ospitalità, l’accoglienza e il rispetto per l’ospite.
Allora comprendi che fare qualche cosa per queste genti ha un significato che va oltre una qualsiasi oblazione. Loro non chiedono ma trasmettono gratitudine sin dal primo incontro; a Nunthala e a Waku spesso mi sento in difficoltà di fronte alle loro espressioni, alle loro manifestazioni di ‘festa’, accogliendoci a mani giunte e porgendoci una collana di tagete gialli, che purtroppo non hanno un gradevole profumo, o la khata, sciarpa che simboleggia la purezza, la benevolenza, il buon auspicio e la compassione.
È vero che abbiamo cambiato in meglio la loro vita portando le medicine, miracolosi confetti forse mai conosciuti prima degli anni duemila, e una lampadina nelle case. Interpellati durante la visita in diverse abitazioni ci hanno sempre risposto che la luce di sera permette agli adulti di proseguire e finire i lavori domestici e ai ragazzi di studiare ancora prima di andare a dormire.
Poi ci siamo impegnati per favorire la scolarizzazione fornendo loro indumenti vari che fungono da divisa; nella scuola, dal 2012, i più grandi possono esercitarsi e imparare ad usare i personal computer.
Nel 2013 abbiamo iniziato a adottare alcuni bambini di Nunthala, Waku e dintorni. Procuriamo alle loro famiglie, purtroppo pochissimi hanno entrambi i genitori, 300 euro all’anno affinché possano far fronte alle spese che devono sostenere per andare a scuola e per le principali necessità.
Nel 2015 il terremoto ha messo in ginocchio tutta la popolazione del Nepal e le vittime sono state tantissime. Ovviamente non abbiamo esitato a mandare loro i nostri aiuti che sono stati utilizzati con grande parsimonia, competenza e responsabilità. Hanno ricostruito un edificio di due piani per l’ospedale di Nunthala e rifatto, grazie anche ad altri aiuti giunti dal C.A.I. e dalla Francia, le scuole di Waku e Nunthala.
Tutto questo lo abbiamo fatto perché se lo meritano, la loro intraprendenza ci stimola sempre più e dove non ci sono parole ci sono i sorrisi dei bambini e degli abitanti del posto a riempire i nostri cuori.
Durante il viaggio di ottobre 2016 mi ha sorpreso moltissimo il fatto che non c’erano più i segni del terremoto avvenuto ad aprile e maggio del 2015. Le macerie sono state spostate non so dove, le case private sono state quasi tutte ripristinate sia a Kathmandu sia nei villaggi sperduti. A Ringmo e a Nunthala si notano i tetti con i nuovi lamieroni, di colore blu, che hanno acquistato con i nostri aiuti, ma tutto il lavoro di ricostruzione è stato svolto dalle persone del posto. Solamente nelle città vecchie di Durbar Square e Baktapur molte costruzioni sono tuttora puntellate e per altre sono rimasti cumuli di macerie, questi luoghi sono patrimonio dell’Unesco; aspettano aiuti internazionali e nessun privato è in grado di provvedere al loro ripristino. Nel 2018 siamo stati per la prima volta nel villaggio di Waku, un insieme di case sparse e l’area di competenza municipale comprende 20.000 abitanti. Siamo stati ospiti di riguardo e premurosamente attesi perché era loro intenzione manifestare la propria riconoscenza in quanto anche con i nostri aiuti hanno potuto ricostruire le scuole distrutte dal terremoto del 2015. In questa occasione abbiamo anche portato molti indumenti per i bambini di Waku e raccolto la loro infinita gratitudine godendo della loro accoglienza e ospitalità. Anche a ottobre 2019 siamo andati nei villaggi di Waku e Nunthala. Chhongba Lama Sherpa ha provveduto a consegnare i nostri contributi ai bambini adottati, così abbiamo incontrato molti di loro accompagnati dai familiari. In questa occasione gli indumenti portati dall’Italia sono stati destinati alla casa-famiglia di Nunthala appena inaugurata e che entrerà in funzione molto presto e potrà ospitare trenta bambini orfani.
Poi c’è l’ambiente, le montagne e i panorami; qui non si va in montagna, si è in montagna, dentro la montagna. E quando cammini ti senti parte di essa anche se le dimensioni ti fanno sentire un pulcino. Guardando queste montagne, i panorami che puoi ammirare quando raggiungi un colle o una cima, ti trovi nelle stesse condizioni del primo uomo venuto sulla terra. Qui possono emergere le nostre debolezze, le nostre miserie e la nostra impermanenza. Salendo alcune montagne superiori ai seimila metri di quota (Island Peak, Mera Peak e Lobuche Peak) ho avuto la possibilità di vivere momenti bellissimi, molto ricchi di emozioni che esulano da qualsiasi concetto di conquista ma ti fanno sentire parte di un universo ancora da scoprire, che può solamente essere frutto di un progetto pensato e prodotto da una entità “Superiore”. Salire, scendere, percorrere i sentieri con serenità e tranquillità: si vivono lunghi e muti colloqui con il sole, le nubi, il vento e l’azzurro Nepal che si colora di rosso al tramonto; questo significa addentrarsi in un mondo pieno di sorprese che ti arricchiscono facendoti vivere emozioni uniche e inaspettate. Emozioni che in modo spontaneo condividi con i tuoi compagni di viaggio, perché quando li guardi negli occhi percepisci una forma di empatia sempre nuova e sorprendente e non servono parole, anzi a volte è molto difficile e inutile esprimere i propri pensieri: uno sguardo, un sorriso, un abbraccio ti riempiono il cuore meglio di mille parole. E se questo avviene nella forma più naturale possibile e il tuo incedere è ricco di rispetto per tutto quanto ti circonda ti senti accettato e a casa tua, e vorresti che questi momenti non finissero mai.
Martino